Avevo capito molto bene quanto avevano detto sull’anima cristiana e sulle frustate, ma mi era completamente oscuro, allora, il significato delle parole: il «suo», il «proprio» puledro, dalle quali parole potevo arguire che gli uomini supponevano un legame tra me e il palafreniere. In che consistesse questo legame non potevo allora capire, e il significato lo compresi solamente più tardi, quando mi separarono dagli altri cavalli. Allora non potevo assolutamente intendere cosa volesse dire l’essere «io» chiamato proprietà di un uomo. Le parole: «il mio cavallo» riferite a me, cavallo vivo, mi sembravano altrettanto strane che le parole: la «mia» terra, la «mia» aria, la «mia» acqua.
Ma queste parole fecero in me un’enorme impressione. Continuai a pensarci su e solamente assai più tardi, in séguito a molti e diversi rapporti con gli uomini, capii, finalmente, il significato che a queste oscure parole attribuiscono gli uomini. Il loro significato eccolo: gli uomini, nella vita, si lasciano guidare, non dai fatti, ma dalle parole. Essi amano non tanto la possibilità di fare o di non fare una data azione, quando la possibilità di dire su vari oggetti determinate parole, tra loro stabilite. Tali parole, considerate appunto tra loro molto importanti, sono queste: «mio, mia, miei», che essi usano riferendosi alle cose più disparate: esseri animati od oggetti, e perfino a proposito della terra, degli uomini e dei cavalli. Essi si mettono d’accordo perché uno solo possa, di una certa cosa, dire la parola «mia». E colui che può, per effetto di questo gioco combinato tra di loro, dire la parola «mia» in relazione al maggior numero di cose, quegli è considerato il più felice di tutti. Perché sia così non so: ma è così. Per molto tempo avevo cercato di spiegarmi la cosa in rapporto a una qualche utilità diretta, ma anche questa spiegazione mi apparve inesatta.
Per esempio, molti di quegli uomini che mi chiamavano il «loro» cavallo, non mi cavalcavano mai e mi cavalcavano invece altre persone. E non erano poi loro a darmi da mangiare, ma tutt’altri e qualche bene mi venne non da quelli che mi chiamavano il «loro» cavallo, ma da cocchieri, da veterinari e, in genere, da persone estranee. In séguito, allargato il cerchio delle mie osservazioni, mi convinsi che, non soltanto per quel che si riferisce a noi cavalli, il concetto di «mio» non ha altro significato se non quello di un basso e bestiale istinto, proprio degli uomini, da loro chiamato sentimento o diritto di proprietà. L’uomo dice: la «mia» casa, ma non ci vive mai e si occupa soltanto della sua costruzione e della sua manutenzione; il mercante dice: la «mia» bottega di stoffe, per esempio, e non veste abiti fatti con il miglior panno del suo negozio; ci sono uomini che chiamano «propria» la terra, ma questa terra non l’hanno mai neppur vista e non ci hanno mai camminato sopra; ci sono uomini che chiamano «loro» altri uomini e non li hanno mai veduti, e l’unico rapporto che hanno verso di essi consiste soltanto nel far loro del male; vi sono uomini che chiamano alcune donne «loro» mogli o donne, ma queste vivono con altri uomini. E gli uomini, nella vita, non aspirano a fare ciò che considerano buono, ma a chiamare di «loro» proprietà il maggior numero possibile di cose. Ora sono convinto che, proprio in questo, consiste la sostanziale differenza tra gli uomini e noi. E perciò per tacere di altri nostri titoli di superiorità sugli uomini, possiamo già, per questa sola ragione, affermare coraggiosamente che sulla scala delle creature viventi siamo su un gradino più alto in confronto agli uomini; l’attività degli uomini, almeno di quelli coi quali ho avuto rapporti, è regolata dalle parole; la nostra, invece, dai fatti.
(Interamente tratto da: Lev N. Tolstoj “Cholstomèr” in Racconti e novelle 1852-1886 nella edizione: Ugo Mursia Editore, Milano, 1960)