Giuro che non volevo, desideravo un numero de Il Mazzafrusto in cui i lettori non avessero trovato la mia firma; ho chiesto una breve vacanza, senza ottenerla! Non solo, c’è stato un tizio che mi ha pregato di proporre ancora un raffronto, dopo quello apparso nel mio Costumi & Costumi sul numero scorso. Gli ho risposto che ne siamo sempre stati inflazionati, di confronti con ***, e che quello uscitone è stato soltanto il finale di un contenuto con indirizzi diversi. Macché, non ti stancare mai di fare appello ai migliori esempi, a costo – sai bene – di essere incompreso.
E via di questo passo, fino a che, per levarmelo di torno, mi son dovuto impegnare promettendo che avrei replicato, per ribadire; ma senza viziare troppo il discorso con sadiche insinuazioni; tralasciando laddove troppo si sarebbe potuto ferire. Esce dunque questo articolo fatto: A) di un lungo citare; B) di due fotografie; poi diverse omissioni segnate con ***. Non ci sono commenti, non giudizi di valore, di fatto nemmeno, manca l’epifonema, non c’è conclusione, e resta al lettore la libertà di indovinare il voluto non chiaro, l’incompleto, il vuoto. Come in un dipinto di Giorgio Morandi, anche le parti senza oggetti e senza soggetti hanno un loro peso, da scoprire e da meditare; senza però pretendere che siano comprese.
«La bandiera è da sempre ritenuta un bene patrimoniale da conservare con la massima cura, sia per il valore simbolico che per quello economico.»
(1)
Anche per le bandiere che vengono esposte all’esterno, si è giunti a codificarla, questa massima cura, in un ampio documento comune.
(2)
Le bandiere “di piazza”, quelle giocate dagli Alfieri, s’impongono invece a ogni sguardo per la loro sontuosa e sinuosa presenza; sono realizzate a mano in ermesino di seta intarsiato e dipinto.
«La valenza militare delle insegne, degli Alfieri e delle sbandierate era denotata esplicitamente dall’etimo dei termini che li definivano. “Alfiere” deriva dall’arabo “al-fàris” che sta per cavaliere, soldato a cavallo. E l’Alfiere *** che sfilava nel Corteo “armeggiava” con l’insegna, “bellicando”, facendo con essa segnali di guerra, insieme con il tamburino. Nelle parole di Guglielmo Palmieri, nel Corteo del 1650 “ne veniva l’Alfiere ms. Bernardino Tabarrini vestito d’abito di raso cremisi guarnito di finimento d’oro, con superbo e nobil cappello con cordone d’argento e gioiello, con spada e guardie d’argento e una nobil cintura d’ermisino turchino, con finimenti grandi d’oro … e fatta profonda riverenza alle Ser.me A.A. incominciò a girare l’insegna, bellicando insieme col tamburino”. Nel Seicento fu Francesco Ferruccio Alfieri, maestro d’armi a Padova, che codificò le regole del gioco della bandiera, esplicitandone il valore di schermaglia pur regolata da una misurata eleganza e ingentilita dalla necessità dello sfoggio e dello sfarzo. La sbandierata doveva essere prima di tutto esercizio militare, “imperocché in esso il piede si fa pronto, si rende pieghevole la vita, la mano acquista forza e si discioglie il braccio” e se poi l’Alfiere si troverà nella necessità di dover difendere l’insegna, gli gioverà saperla bene adoperare come arma: “per quale cagione è armata l’asta se non per ferire? e per saper ferire è necessario esercitarsi all’arte, che altrimenti non ad altro serve che ad intrigare ed inviluppare le mani”. Giocare con la bandiera era prima di tutto tirare di scherma, e la sbandierata era un gioco anche di destrezza, ma soprattutto di forza. Fu solo nell’Ottocento che il gioco delle insegne cominciò ad esser pensato per due Paggi e non per guerrieri nerboruti. Gli Alfieri furono scelti più giovani e più agili, e cominciarono a dar vita a un gioco sempre più elegante e leggero, che veniva eseguito con due bandiere dalle aste fatte di faggio o di simili legnami flessibili, e del peso di circa ottocento grammi. La sbandierata divenne uno svolgersi continuo, una astratta narrazione che spostò i suoi moduli verso quelli del balletto in un fluido snodarsi di movimenti tutti di misura circolare o ellittica, senza angolosità o fermate, sempre comandati dalla ricerca della sincronia perfetta tra i due Alfieri, in una sorta di narcisistica specularità. Qualche Alfiere del passato viene ancora ricordato, come […] Mastuchino dell’*** il quale agli inizi del Novecento rielaborò l’intero codice della sbandierata dandogli forma organica e arricchendolo di nuove figure quali il famoso “salto del fiocco”. Ma in genere il girar la bandiera è arte popolare, più legata al suo codice e ai suoi canoni che non all’individualità dei suoi attori. I movimenti della sbandierata assommano a diverse decine, e ogni Contrada ha una propria tradizione indipendente che si tramanda di generazione in generazione: i due “Alfieri di Piazza” preparano i loro successori in modo che un loro abbastanza frequente ricambio mostri la validità della scuola della loro Contrada e la ricchezza del numero di buoni Alfieri che essa produce. I movimenti di base, detti “fioretti”, si raggruppano in “figure” o “giochi” che a loro volta si possono variamente combinare in sequenze di lunghezza variabile a formare la “sbandierata”, eseguita su una speciale cadenza dei tamburi. I fioretti della tradizione hanno ognuno il proprio nome. Tra i più noti sono il passaggio di vita e il passaggio di collo, lo scartoccio, il mulinello, il sottogamba, l’ancalena; c’è poi tutta una serie di movimenti ad otto: gli otto a penna, gli otto dietro la vita, gli otto stretti, gli otto sottogamba. Ci sono gli scambi di bandiera, nei quali gli Alfieri si lanciano i vessilli, e gli scambi di Alfiere, nei quali i due scagliano in alto la bandiera e corrono a prendere l’uno quella dell’altro. Abbastanza recente è l’introduzione di vari salti: il salto della propria bandiera o salto del fiocco, il salto dell’altro Alfiere, il salto di Alfiere e tamburino insieme. Le sbandierate sono sempre concluse dall’alzata nella quale il vessillo è scagliato in alto, talvolta all’altezza dei tetti. […] Tra una sbandierata e l’altra, il tamburino batte il “passo della Diana”, il suono più suggestivo tra quelli dei tamburi del Palio. (3)
Per i *** questo movimento, questa policromia, questi suoni fanno da sfondo soprattutto all’entrata in Piazza delle bandiere della loro Contrada, che guardano passare e osservano sbandierare con orgoglio antico. Questa “pienezza di sentimenti” non permette ai contradaioli le eleganti e mondane chiose estetiche di saggi come quello di Aldous Huxley, che con il trasognato entusiasmo di tanti spettatori scriveva: “Nel vento del loro movimento le bandiere si aprirono. Erano della stessa misura, ed entrambe verdi e gialle, ma i colori erano disposti in un disegno diverso su ciascuna. E quali disegni! Non si è mai visto niente di più moderno. Li avrebbe potuti disegnare Picasso per il Balletto Russo. Fossero state di Picasso, i critici più grevi le avrebbero chiamate futuriste, quelli più lievi Jazz… queste bandiere sono classiche, sono Grande Arte; non c’è nient’altro da dire”». (4)
(1) http://www.contradadellatorre.net/la-contrada/i-simboli-dell-appartenenza/le-bandiere/
(2) http://www.ilpalio.siena.it/5/Reg/RitualeContradaiolo.aspx
(3) http://www.ilpalio.siena.it/5/Contrade/Tamburo
(4) Alessandro Falassi “Festa di Siena - I giorni del Palio”, in: “Palio” - Alessandro Falassi, Giuliano Catoni, fotografie di Pepi Merisio -
Monte dei Paschi di Siena - Gruppo Editoriale Electa, Milano, 1982.
Quartiere di Porta Crucifera P.I. 92057120518
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FOTOGRAFIE
Alberto Santini e Maurizio Sbragi
collaborazione fotografica di Fotozoom: Giovanni Folli - Claudio Paravani - Lorenzo Sestini - Fabrizio Casalini - Marco Rossi - Acciari Roberto